Il periodo che precede la stesura delle Legge di Stabilità è da sempre momento di rivendicazioni e spintoni per avere più attenzione dal governo e dal parlamento. Ciclicamente si torna a parlare di lavoro, consumi, investimenti. Ma quale dovrebbe essere la priorità?
La premessa fondamentale è che ogni ragionamento deve essere fatto tenendo in considerazione la montagna di debito pubblico che continuiamo a portarci dietro. Quei 2000 e passa miliardi di euro sono ospiti fissi in tutte le riunioni ed in tutti i tavoli tecnici che da qui a fine ottobre prepareranno il testo da presentare all’Unione Europea. Cosa significa tutto questo? Ovviamente che fare manovre in deficit rende il fardello sempre più pesante e che si dovrebbe prestare più attenzione alla qualità della spesa pubblica. Visti i malinconici destini dei commissari alla spending review si capisce quanto sia difficile attaccare la diligenze da quel lato. Ministeri che non snelliscono, partecipate che non calano quanto dovrebbero, costi standard non pervenuti e via dicendo.
Quella che una volta chiamavamo Finanziaria è un documento nel quale il governo (ed il parlamento) delineano le strategie di politica fiscale per l’anno successivo; uno strumento potentissimo che può, se ben congeniato, stimolare risposte da parte del tessuto economico nazionale.
Supponiamo allora che il Governo si trovi nella possibilità di mettere risorse nel sistema, dove dovrebbe allocarle? Sul lavoro, sui consumi, sulle imprese?
Si sente spesso il sindacato dire che il governo fa poco per creare posti di lavoro, ma come può creare posti di lavoro un governo? A pensarci le possibilità sono due: creare opportunità di lavoro oppure incentivare le imprese private ad assumere.
Il Jobs Act ha provato a percorrere la seconda strada. Incentivare le imprese ad assumere perchè con i nuovi contratti aumentale la forza lavoro è meno costoso e meno “vincolante”. Non è andata bene perchè nel frattempo la congiuntura si è dimostrata debole e l’incentivo non è stato stabilizzato. Se nel breve periodo le imprese possono considerare il risparmio fiscale derivante dall’assunzione, nel medio periodo la forza lavoro deve essere in linea con la capacità produttiva.
Creare opportunità di lavoro è l’alternativa. In tempi recenti il Piano Casa proposto dal governo Berlusconi ha fallito nei suoi intenti ma gli incentivi, meno impattanti, sulle ristrutturazioni e sulle riqualificazioni energetiche hanno dato dei riscontri interessanti. In tempi recenti da qualche voce della politica si è sentita l’idea di creare un piano di opere pubbliche, cantierabili in tempi brevi, che potessero generare posti di lavoro. Anche in questo caso l’impressione è che si tratti di soluzione di breve termine e dai numeri limitati.
Il lavoro non si crea per legge, il lavoro si crea se si cresce, se aumenta la ricchezza prodotta, se aumenta la domanda di prodotti e servizi, se, in termini semplici, si inizia a far girare un po’ di soldi nel sistema. A questo punto il filo logico suggerisce che bisogna agire sui consumi.
Effettivamento stimolare la domanda interna è forse l’approccio più giusto. Come si stimola la domanda? Come si può incentivare la gente a spendere? Chiariamolo subito, servono soldi, tanti soldi da utilizzare per creare sgravi fiscali, agevolazioni e tagli di tasse. Il ragionamento alla base di tutto è: se aumento la capacità di spesa dei consumatori molto probabilmente aumento anche la loro propensione alla spesa, l’aumento della domanda genera un aumento dell’offerta che a sua volta espande la capacità produttiva e quindi l’occupazione. Tutto semplice? Nemmeno per sogno. L’aumento della propensione alla spesa non va in automatico, dipende da tanti fattori e non da ultimo dalle prospettive che i consumatori hanno verso il futuro. Con gli attuali indici di fiducia, un’alta disoccupazione giovanile ed un alto tasso di povertà l’esito del procedimento sopra descritto è alquanto incerto.
A questo punto non rimane che analizzare l’ultima delle ipotesi prese in considerazione: le imprese. Le imprese sono i presidi che creano ricchezza, per farlo hanno bisogno di essere competitive e profittevoli. La competitività oggi la si raggiunge principalmente con la ricerca e sviluppo. Rincorrere la concorrenza sul fronte dei costi è battaglia persa in partenza soprattutto per le piccole e le piccolissime imprese.
Incentivare gli investimenti in ricerca e sviluppo, sostenere l’internazionalizzazione delle imprese, ridurre la tassazione per aumentare la profittabilità, semplificare il rapporto tra impresa e stato diminuendo e razionalizzando gli adempimenti burocratici, incentivare l’approdo di realtà internazionali. Creare, in definitiva, un ecosistema più fertile per l’attecchimento e la crescita di insediamenti produttivi. Anche in questo caso nulla è matematicamente sicuro, per avviare un’impresa occorrono idee e capitali, in questo sarebbero fondamentali le banche ma se guardiamo ai dati BCE notiamo che l’aumento di prestiti pungolato con il QE è stato diretto soprattutto verso i privati mentre la concessione di crediti alle imprese rimane in flessione.
Alla fine di questa lunga riflessione una risposta alla nostra domanda iniziale non c’è. La realtà è che le cose sono molto più complesse di quanto sembrano e che spesso non è nemmeno tutto nelle nostre mani. Questo non significa che ci si debba rassegnare, un buon mix di interventi tra imprese e consumi può dare risultati, ma non pensiamoli nel breve termine. Nel breve, invece, occorre picchiare forte sulla spesa pubblica, razionalizzarla e ridurla dovrebbe essere il mantra dei nostri amministratori; è su questo che si gioca la partita più importante.