La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata dal rosso intenso dei mercati finanziari di tutto il mondo. Dopo le prime ottave del 2018 passate a ritoccare record gli investitori si sono ritrovati di fronte ad uno scenario inaspettatamente diverso. Cambio di rotta o correzione?
Se c’è una certezza rimasta intatta in questi ultimi anni è il rapporto tra mercati e liquidità. Le politiche monetarie espansive delle banche centrali hanno creato un mare di liquidità a basso costo che ha fatto marciare i listini azionari fino a far loro toccare record su record.
A rafforzare il clima di euforia ci hanno pensato poi anche altre variabili: la crescita globale ed i profitti societari da una parte e l’inflazione bassa dall’altra. Ed è proprio l’inflazione al centro delle preoccupazioni che hanno scatenato il rosso sui mercati finanziari o per meglio dire è la velocità con la quale l’inflazione potrebbe crescere a rendere nervosi gli investitori.
Andiamo con ordine. La Fed in settimana ha ribadito che l’obbiettivo dell’inflazione al 2% è alla portata e che la dinamica dei prezzi è vista in rialzo nei prossimi mesi. A questo punto sembra probabile che il primo dei tre (forse quattro) rialzi dei tassi di interesse del 2018 sarà deciso già il prossimo mese. In Europa la situazione è differente ma la BCE si dice convinta che le cose nel corso del 2018 possano cambiare. Se questo scenario fosse confermato potremmo assistere, a partire dall’autunno di quest’anno, alla progressiva chiusura dei rubinetti del QE da parte dell’istituto governato da Mario Draghi.
Parallelamente si sono registrati i primi segnali di una spinta rialzista dei salari. Negli Stati Uniti il rapporto sull’occupazione di gennaio ha certificato un balzo annuale dei salari che non si vedeva dal 2009. In Europa si registrano le prime spinte sindacali ad un robusto aumento dei salari in Germania. L’aumento dei salari viene considerato un potente segnale inflattivo.
A questo scenario va aggiunto la possibile prosecuzione dell’aumento dei prezzi del petrolio che ha una diretta conseguenza sull’aumento dell’inflazione complessiva. Sulla base di questi dati molti analisti fissano il livello di inflazione raggiungibile dagli USA nel 2018 al 2,6% ma qualcuno si spinge a fissarla ad oltre il 3%.
I mercati ragionano sulle prospettive, scommettono sul futuro ed in questo momento hanno deciso di scontare la fine della goldilocks economy o quantomeno un suo sostanziale indebolimento, portando a casa un po’ di profitti e rimanendo in attesa.
A farne le spese per primi sono stati i T-Bond americani – i più sensibili ad una stretta monetaria da parte della FED – i cui rendimenti sono schizzati oltre il 2% segnando la quinta settimana di prezzi al ribasso. Occorre inoltre sottolineare come il rendimento dei titoli a 2 anni si stia pericolosamente avvicinando a quello dei titoli a 10 anni. Un’inversione della curva dei tassi (tassi a breve termine più alti di quelli a lungo termine) è universalmente considerato un segnale di inversione del ciclo economico.
Un aumento repentino dell’inflazione potrebbe portare le Banche centrali ad accelerare la stretta sui tassi e questo incide fortemente sul mercato azionario che, nell’ultima settimana, ha dato i primi segnali di cedimento.
Correzione o cambio di rotta? Presto, molto presto per dirlo. Nelle prossime settimane ne capiremo di più. Quel che è certo è che a decidere il destino dei mercati saranno ancora una volta le banche centrali e la loro politica monetaria.