Dietro l’incertezza delle previsioni di crescita economica mondiale presentate a Davos, si nasconde uno scomodo protagonista: il debito globale. La sua silenziosa presenza è fonte di preoccupazione e rischia di rendere il lavoro delle banche centrali sempre più complicato.
Il Fondo Monetario Internazionale ha raccolto i dati sul debito del settore privato e di quello pubblico di 190 paese dal 1950 al 2017. La massa di debito globale, fotografata a fine 2017, è pari a 184 trilioni di dollari. Rapportata alla ricchezza prodotta (il PIL) raggiunge la percentuale monstre del 225%. Per usare una rappresentazione sempre molto efficace, questo significa che ogni persona ha un debito pari a oltre due volte la ricchezza che riesce a produrre.
Sempre l’FMI ci fa sapere che i paesi più ricchi sono anche i più indebitati. Praticamente metà del debito mondiale è intestato a USA, Cina e Giappone. Per le economie avanzate la percentuale media del debito sul PIl è del 266%, scende al 168% per le economie emergenti, al 77% per le economie più povere.
Debito privato e debito pubblico hanno assunto tendenze molto diverse negli ultimi decenni. Se la componente privata è triplicata nel 2017 rispetto al 1950, la componente pubblica ha iniziato a mostrare segnali di rallentamento. A fine 2017 2/3 del debito mondiale era di natura privata. In Cina raggiunge l’81%, il 58% negli USA.
Cosa significano tutti questi dati? Il debito è sostanzialmente come un dolce, non è cattivo di per sè ma in dosi massicce può nuocere alla salute dell’organismo che lo assume. Se il ricorso al capitale di terzi può rappresentare una leva poderosa per gli investimenti, quando lo stock di debito accumulato cresce troppo diventa un cappio che si stringe sempre di più al collo dell’economia, trasformandosi in un potenziale detonatore per una crisi finanziaria.
E quando si parla di debito si parla di tassi di interesse. Sono (anche) le dinamiche sui tassi a decidere il peso degli oneri finanziari derivanti dal debito. Più i tassi si alzano e più aumentano i costi derivanti dal denaro preso a prestito. Più alti sono gli oneri e meno sono le risorse disponibili per gli investimenti e per i consumi, con le conseguenti ricadute sul sistema economico.
Dopo anni di tassi congelati – e con il problema del debito nascosto sotto il tappeto – i recenti cambiamenti di atteggiamento delle banche centrali hanno rimesso in circolo tutte le preoccupazioni legate alla sostenibilità di questa enorme massa di denaro prestato. Gestire la normalizzazione della politica monetaria in queste condizioni significa maneggiare un accendino in prossimità di un deposito di benzina. Un rallentamento della crescita economica che dovesse trasformarsi in una recessione potrebbe essere amplificato dall’insostenibilità di parte dello stock di debito privato.
Per questo i mercati guardano con attenzione alle mosse delle banche centrali, preoccupandosi quando si appalesano scenari di politica monetaria restrittiva e rilassandosi quando i governatori rassicurano sulla flessibilità della loro condotta.
Se le banche centrali dimostrano una certa capacità di fare squadra, non si può dire altrettanto dei governi delle principali economie mondiali. Da qui altre preoccupazioni: una eventuale crisi finanziaria a livello globale come potrebbe essere affrontata in un quadro politico così frastagliato?