Ancora una volta il governatore della BCE, Mario Draghi, avverte che le condizioni economiche dell’eurozona peggiorano. Servirebbe, subito, un robusto progetto di politica fiscale, sottintende il governatore, ma l’allarme sembra cadere nel vuoto.
Ieri Mario Draghi, governatore a fine mandato della BCE, ha sostanzialmente confermato due cose. Innanzitutto lo scenario economico dell’eurozona non da segni di miglioramento sostanziali. Di conseguenza – secondo concetto – la BCE è pronta a fare, ancora una volta, la sua parte: congelare i tassi ed aumentare la liquidità.
Una sorta di ritorno al 2012, l’anno del famoso “whatever it takes” di Draghi, che però rischia di non bastare. Se il bilancio del primo round di politica monetaria ultra-espansiva ha portato l’eurozona a crescere per 6 anni di fila, creando – stando ai dati BCE – quasi 10 milioni di posti di lavoro, la seconda versione del bazooka rischia di partire indebolita.
Due sono le preoccupazioni di Draghi. Da un lato la sostanziale assenza di un progetto di politica fiscale in grado di affiancare il lavoro della banca centrale. Dall’altro lato – in parte conseguenza di quanto appena detto – la persistente difficoltà a raggiungere il target di inflazione, scopo principale della BCE.
Da qui l’allarme di Draghi. “If there were to be a significant worsening in the euro-zone economy, it’s unquestionable that fiscal policy, a significant fiscal policy, becomes of the essence”.
Parole che sembrano cadute nel vuoto. Del resto basta fare un veloce giro di orizzonte per capire che porre mano alla politica fiscale non è tra i primi pensieri degli Stati membri. La Germania continua a cullare teneramente il suo surplus commerciale (58 miliardi di euro, un record). In Francia le riforme annunciate da Macron si affievoliscono alla disperata ricerca di un ritorno di consenso. In Italia sappiamo quale sia la situazione. La Spagna fatica a darsi un governo. In Grecia la ricetta Tsipras è stata messa all’angolo.
La zona euro attende misure in grado di rendere più flessibile il mondo del lavoro, incentivare gli investimenti, armonizzare la tassazione. Tutto quello che può liberare potenziale e ridestare la domanda interna.
L’allarme di Draghi è anche una sorta di ultima chiamata. La politica monetaria sta finendo i suoi spazi di manovra e questo non è un bene. Il perdurare di un’inflazione lontana dal target rischia, alla lunga, di minare la credibilità dell’istituto (e sappiamo quanto la credibilità delle banche centrali sia fondamentale). I mercati finanziari cominciano a pensarci su e la risposta all’annuncio della ripresa degli stimoli monetari a settembre non ha entusiasmato più di tanto.