I prezzi del carbone sono schizzati verso l’alto. Il Northwest European coal ha segnato un rincaro del 20% da inizio anno ed ha raggiunto qualche settimana fa i suoi massimi a due anni. In tempi di sfida ai cambiamenti climatici e con forti disincentivi agli investimenti nel fossile, il carbone vive – forse – la sua ultima fiammata.
Quello che sta succedendo ai prezzi del carbone negli ultimi mesi è paradigmatico della situazione che stiamo vivendo. Se da un lato siamo tutti d’accordo sul ritenere indispensabile il passaggio dalle fonti di energia fossile a quelle di energia rinnovabile, dall’altro occorre fare i conti con un mondo affamato di energia, specie in un periodo come questo, con la ripresa economica che spinge i motori della produzione al massimo. E se l’energia rinnovabile è scarsa o troppo cara, la grande catena produttiva e di consumo mondiale non può che rivolgersi al fossile. Il problema riguarda soprattutto il settore della produzione di energia elettrica, con molti impianti ancora alimentati a carbone ed una domanda che dalla primavera dello scorso anno non ha fatto altro che crescere.
L’epicentro è ancora una volta la Cina. Qui si estrae e si consuma circa la metà del carbone prodotto ogni anno nel mondo. L’economia cinese, la prima a riemergere dalle paludi pandemiche, ha cominciato a bruciare carbone per produrre energia elettrica a ritmi impressionati, tanto che le condizioni di lavoro nelle miniere del paese sono peggiorate a tal punto da scatenare una serie di incidenti mortali. Eventi che hanno imposto un intervento governativo, limitato la capacità estrattiva cinese ed aumentato la pressione sull’offerta estera, Australia esclusa (visti i rapporti non idilliaci, per usare un eufemismo, tra i due paesi).
Nello stesso periodo il mercato mondiale del carbone è stato squassato da molti altri fattori e tra questi, guarda caso, vi sono anche eventi climatici eccezionali: una stagione delle piogge particolarmente severa in Indonesia (al momento primo produttore asiatico di carbone); un’ondata di caldo eccezionale in Cina che ha spinto ulteriormente all’insù la domanda di energia elettrica.
Tutto questo, unito anche a problemi di trasporto nelle miniere colombiane, ha fatto schizzare i prezzi del carbone in generale e di quello nord europeo in particolare.
Secondo gli analisti la dinamica tra domanda ed offerta di carbone dovrebbe normalizzarsi entro fine anno. Nel medio termine sia Goldman Sachs che IHS Markit vedono una flessione netta nel consumo di carbone. Nel 2021 il consumo di carbone dovrebbe ridursi rispetto al 2019 di circa 55 milioni di tonnellate, compensando la maggior domanda cinese con la scarsa richiesta, causa covid, dell’India.
La sensazione che emerge dalla vicenda carbone è quella di vivere in una sorta di paradosso. La ricerca della ripresa economica, che da più parti è auspicata nel segno della sostenbilità ambientale, ed il ritmo indiavolato con il quale la si sta effettuando, dà nuova linfa al fossile; proprio negli anni cruciali (gli ultimi a disposizione) per salvare il pianeta dalla catastrofe climatica. E qui si torna al nocciolo del problema: la transizione energetica è un’arma spuntata senza un ripensamento profondo del sistema produttivo e dei consumi.
Foto di Rolf Dobberstein