Tanto tuonò che piovve. Dopo mesi e mesi passati a considerare il rialzo dei prezzi al consumo come un fenomeno transitorio, le principali banche centrali cambiano rotta ed ora l’inflazione diventa il primo nemico da combattere, con la pandemia che può essere fonte di ulteriori rialzi dei prezzi.
Mercoledì e giovedì scorso sono stati due giorni caldissimi per la politica monetaria internazionale. Le concomitanti riunioni dei board di Federal Reserve, Bank of England e Banca Centrale Europea hanno partorito quello che a molti analisti è sembrato un vero e proprio cambio di rotta. Anzi, qualcuno si è spinto un po’ oltre, parlando di una vera e propria scommessa.
Ma andiamo per ordine e diciamo innanzitutto cosa è successo. Tre fra le principali banche centrali del mondo hanno deciso di mettere mano all’attuale politica monetaria, accelerando, seppur con modalità e sfumature differenti, l’uscita dalla fase di “emergenza pandemica”. Così la FED ha stabilito di aumentare il ritmo della riduzione di acquisto titoli e pianificato tre rialzi dei tassi di interesse nel corso del 2022. La BoE ha fatto un passo in più, alzando i tassi ma “solo” di 15 punti base. La BCE, infine, ha ribadito la linea “attendista” sui tassi, definendo la scadenza del piano di acquisto titoli varato per far fronte alla crisi economica da covid (il PEPP).
Cosa ha scatenato questa “improvvisa” smania di politica monetaria restrittiva? L’inflazione. Dopo mesi e mesi passati a definire la sua impetuosa salita come un fenomeno transitorio, ora le banche centrali hanno cambiato idea e il rialzo dei prezzi al consumo da conseguenza della crisi pandemica è diventato minaccia per la ripresa economica post-pandemia. Una sterzata che sottointende una convinzione, o meglio una scommessa: l’inflazione per le banche centrali può fare danni ben maggiori della pandemia. Anzi, la pandemia può diventara fonte di ulteriori rialzi dei prezzi per la sua capacità di spingere i consumatori dall’acquisto di servizi, che non rientrano nel calcolo dell’inflazione, verso l’acquisto di beni.
Questo lo pensa certamente la FED che non ritiene, parola di J Powell, la variante Omicron una possibile causa di slittamento per la fine del tapering ed evidentemente nemmeno una possibile causa di ulteriori problemi sul fronte della catena di fornitura globale.
Che l’inflazione sia peggio della pandemia lo pensano, seppur con toni molto più blandi, anche la BoE e la BCE. La prima ha alzato timidamente i tassi a causa delle montanti preoccupazioni sulla diffusione della nuova variante di covid-19 in Gran Bretagna; la seconda, per bocca della governatrice Lagarde, ha ricordato che nuove restrizioni possono far deragliare la ripresa economica dell’Eurozona.
Cambiare idea è nella maggior parte dei casi un segnale di intelligenza. Ma questa virata delle banche centrali lascia sul tappeto alcuni interrogativi sui quali non si può soprassedere. Come si può pensare che con le attuali percentuali di vaccinazione di molte parti del mondo, le nuove varianti non possano rallentare ancora per molto tempo la supply chain, principale causa, forse anche più della cresciuta domanda, del rialzo dei prezzi? Quanto efficace può essere una politica monetaria restrittiva se l’inflazione è causata soprattutto da problemi che riguardano l’offerta? Ed infine, di fronte a questi cambi di vedute, la credibilità delle banche centrali potrebbe uscirne indebolita?
La pandemia ha costretto la politica, sia fiscale che monetaria, su terreni inesplorati. La sensazione è che questo viaggio ricco di incognite continuerà ancora per molto tempo.
Illustrazione di kreatikar