L’accelerazione imposta dall’inflazione alle manovre delle banche centrali, FED in testa, avrà sicure ripercussioni sul mercato azionario. Sull’argomento, però, le opinioni dei grandi gestori non potrebbero essere più variegate.
La Fed si prepara ad alzare i tassi di interesse nella prossima riunione del mese di marzo. Se sul cambio di rotta dell’istituto governato da J Powell non ci sono più dubbi, ben diversa appare la questione relativa al numero di rialzi da qui fino alla fine dell’anno. Partiti da tre/quattro, ora alcuni analisti arrivano a 6 e per qualcuno la FED dovrebbe addirittura procedere ad un rialzo ad ogni riunione da qui a fine anno. Dare i numeri, nel senso buono dell’espressione, non è forse la cosa migliore in questo momento storico, ma di certo i mercati azionari un po’ si sono fatti impressionare e lo dimostrano le molte e variegate previsioni che i grandi gestori stanno diffondendo in queste settimane.
Molti sono rimasti colpiti dalla fermezza di J Powell. Considerato molto spesso come incline a “non disturbare” Wall Street, in questa circostanza ha mostrato – in ritardo dirà qualcuno – risolutezza nel voler rimettere in riga l’inflazione statunitense. E per raggiungere l’obiettivo, dice Greg Jensen di Bridgewater, la FED potrebbe sopportare una correzione dell’azionario anche fino ai 20 punti percentuali. Cosa che non tutti vedono come catastrofica. Secondo alcuni analisti l’effetto ribassista della stretta monetaria sui corsi azionari avrebbe implicazioni positive, sgonfiando un poco le valutazioni troppo generose, per essere gentili, di alcuni assets e normalizzando la situazione.
Ed il fatto che sui mercati finanziari tutto costi troppo è alla base della previsione, catastrofica, di Jeremy Grantham (GMO). Non nuovo ad uscite di questo tipo, Grantham vede spazi per una correzione dello S&P500 di almeno il 50%, partendo da una situazione che definisce di maxi bolla nella quale gli investitori si sono cullati per anni, dimenticando che nel futuro dell’economia ci saranno più inflazione, meno risorse e minor crescita.
Andrew Sheets di Morgan Stanley pone la questione in termini più geografici. L’azionario USA rimane terribilmente esposto alle dinamiche dei tassi di interesse. Il rapporto inflazione tassi, man mano che tenderà a riportare i tassi reali vicino o sopra lo zero, avrà l’effetto di far scivolare i listini statunitensi verso posizioni da fondo classifica nell’azionario mondiale. Motivo per il quale la banca d’affari newyorkese punta sull’Europa e sui difensivi a Wall Street.
Non mancano di certo i supporters del “buy on the dip”, dell’acquista mentre i mercati si sgonfiano un po’. Posizione sostenuta ad esempio da Citi Bank e Goldman Sachs, ma anche da Wells Fargo. Tra le argomentazioni c’è quella secondo la quale, una volta superato l’effetto “shock” del cambio di rotta della FED, si tornerà a valutare le dinamiche inflazionistiche e di politica monetaria in relazione al loro impatto sulla crescita economica. In altre parole si tornerà a guardare ai profitti aziendali. La raccomandazione dei gestori, in questo senso, è di privilegiare azioni di società dai buoni fondamentali.
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