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La supply chain asiatica è viva e vegeta

A due anni dallo scoppio della pandemia la supply chain asiatica mostra numeri in grande ripresa, come certifica l’ultimo rapporto della Asian Development Bank.

Se vi ricordate una delle prime reazioni alla comparsa del covid-19, quando ancora non era pandemia e sembrava affare limitato alla Cina ed al sud-est asiatico, è stata quella di mettere in discussione la catena di approvigionamento che da oriente riforniva, velocemente e on demand, industrie e negozi dell’occidente. I primi a pagarne il conto, con la scarsità di microchip, sono stati i produttori di apparecchi tecnologici e di automobili ed in poco tempo si è diffusa l’idea della necessità di una deglobalizzazione; di riportare a casa, come spesso accadeva di sentir dire, le produzioni lasciate per troppo tempo in mano ai nuovi player asiatici.

A quasi due anni di distanza la supply chain asiatica è viva e vegeta. Anzi, stando ai dati diffusi pochi giorni fa dall’Asian Development Bank, ha mostrato addirittura una capacità di resilienza maggiore rispetto a quella occidentale. In particolare è nettamente migliorata la capacità di scambio all’interno dell’area. I numeri dicono che il commercio tra i paesi dell’area asiatica, dopo un calo del 3% nel 2020, ha registrato un incremento di oltre il 30% nei primi tre trimestri del 2021, toccando il 58% del volume totale di scambi nella zona. Percentuali che non si vedevano da oltre trent’anni e che gli investitori internazionali non hanno di certo ignorato.

Gli investimenti diretti esteri nell’area hanno ceduto solo l’1,5% nel 2020. Una perdita irrisoria se consideriamo che a livello globale il calo degli FDI ha superato in quell’anno il 30%. Capitali che l’area asiatica, ricorda il report, sta sfruttando per procedere sulla strada della digitalizzazione delle proprie economie. Dal 2009 al 2020, infatti, circa un quarto degli investimenti esteri è andato nel settore dei servizi digitali, un fattore chiave per lo sviluppo futuro dell’area.

Foto di bealigned

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