Sfondo scuro Sfondo chiaro

Market power e rapporti con il legislatore: essere grandi conta

Un interessante studio sulla realtà USA mostra come il market power si trasformi, soprattutto per le grandi imprese, in un aumento delle attiività di lobbing presso il legislatore.

Piccolo è bello, ma grande conta molto di più. No, il caldo (quasi) fuori stagione non ha improvvisamente fatto impazzire chi vi scrive, ma questa frase potrebbe essere la sintesi di una ricerca pubblicata recentemente dal CEPR su un argomento interessante e di attualità: i grandi gruppi industriali e la loro capacità di influenzare le scelte del legislatore.

Riavvolgiamo il nastro e proviamo a raccontare il lavoro di Bo Cowgill, Andrea Prat e Tommaso Valletti. Supponiamo di avere uno scenario nel quale si muovono quattro attori. C’è il legislatore che regola i rapporti tra consumatori ed aziende, ci sono i consumatori ed infine ci sono tre società (A, B e C) che producono uno stesso bene, l’unico necessario in questo scenario, e si dividono in parti uguali la domanda. Per aumentare i profitti le tre aziende hanno due strade. Una, diciamo collaborativa, è quella di mettersi d’accordo e creare un cartello. L’altra, più darwiniana, è che le tre tentino di mangiarsi una con l’altra. Tralasciando la prima ipotesi, supponiamo che A si compri B. La mossa consente chiaramente ad A di raddoppiare la propria quota di mercato e quindi di aumentare quello che in inglese si chiama market power.

Ora la domanda è: un’impresa che aumenta il suo market power utilizza la sua accresciuta dimensione anche per fare più pressione sul legislatore? Il quesito non è banale e negli USA se lo sono posti da un bel po’ di anni. In una situazione come quella attuale, dove grandi conglomerati industriali possono contare su fatturati pesanti quanto, se non di più, del PIL di molti paesi, interrogarsi su cosa possano voler dire queste dimensioni a livello legislativo è qualcosa che dovrebbe interessare molto, soprattutto i consumatori.

Cosa hanno trovato Cowgill ed i suoi colleghi? Lo studio ci indica che una relazione tra aumento delle dimensioni e attività di persuasione politica (di lobbing) esiste. In termini numerici, l’analisi di 20 anni di acquisizioni/fusioni negli USA indica che ogni singola attività comporta mediamente un aumento delle spese per lobbing tra i 130 e i 206 mila dollari, vale a dire un 30% in più rispetto al periodo pre-acquisizione/fusione. Lo studio mostra, ma il dato è da prendere con le pinze, che un marginale aumento si verifica anche nelle contribuzioni alle campagne elettorali.

In tutto questo le società con una capitalizzazione più ridotta, le small cap per intenderci, sembrano mostrare dati più contraddittori, mentre la relazione appare molto più evidente quando si guarda alla big cap, le grandi capitalizzate.

Negli USA l’attività di lobbing è regolamentata e tracciata. Possiamo solo immaginare cosa possa succedere in altre situazioni dove il rapporto tra politica ed imprese rimane avvolto dalla nebbia.

Foto di Jan Vašek

Resta aggiornato

Gli ultimi articoli di Ekonomia.it direttamente nella tua casella mail. Iscriviti qui sotto.
I dati trasmessi attraverso questo modulo sono trattati secondo la nostra privacy policy, in linea con la normativa vigente. Per nessun motivo verranno ceduti a terze parti o utilizzati per l'invio di messaggi di natura commerciale.
Post precedente

Germania, indice IFO cresce a sorpresa nel mese di maggio

Post successivo

Focus sondaggi PMI di maggio: segnali di rallentamento, ma contenuti

Pubblicità