Da più parti si sostiene che l’aumento dei prezzi sia stato alimentato dal desiderio di profitti delle aziende, quella che in gergo viene chiamata greedflation. Ma i numeri sembrano suggerire che forse l’avidità questa volta conta un po’ meno.
Nella conferenza stampa post riunione di giovedì scorso, la governatrice della BCE – Christine Lagarde – ha dichiarato che in alcuni settori le aziende hanno potuto aumentare i margini di profitto a causa di uno squilibrio tra offerta e domanda e dell’incertezza creata dall’inflazione elevata e volatile.
Come riporta l’Economist, secondo un sondaggio di Morning Consulting un terzo degli americani è convinto che la volontà delle aziende di massimizzare i profitti abbia contribuito all’aumento dell’inflazione più di qualsiasi altro fattore. Tra l’economista a capo della banca centrale europea e la voce del “popolo” raccolta dal sondaggio, non mancano prese di posizione “intermedie” dello stesso tenore. Fabio Penetta poche settimane fa ipotizzava che l’aumento dei profitti potesse essera alla base di un aumento dell’inflazione. E Paul Donovan di UBS sostiene che la dinamica più recente dei prezzi è guidata da un’inusuale espansione dei profitti aziendali.
Per spiegare la persistenza dell’inflazione nelle principali economie mondiali, anche ora che la tensione sui prezzi dell’energia sembra essere venuta meno e le banche centrali hanno portato i tassi a livelli che non si vedevano da decenni, molti analisti stanno concentrando la loro attenzione sui risultati aziendali emersi dalle ultime trimestrali. Risultati che mostrano, per usare le parole di Donovan, un’insolita crescita dei margini di profitto. Ai più è venuto spontaneo associare la cosa a quel fenomeno che in inglese viene chiamato greedflation, vale a dire un rialzo dei prezzi causato dall’avidità dei venditori. Si tratta di un fenomeno dalle fondamenta teoriche molto incerte e che i dati non sembrano avallare più di tanto. Sempre l’Economist ci ricorda che nel prezzo per unità di prodotto/servizio negli USA, la quota di profitto si è matenuta sostanzialmente stabile dal 2021 ad oggi, mentre è aumentata quella relativa al costo del lavoro. In altre parole, le imprese non hanno certo ridotto la loro quota di profitto, ma sui prezzi finali si è fatta più evidente anche la pressione salariale.
L’ipotesi più probabile è che di fronte all’inflazione i comportamenti di consumatori ed imprese siano stati per certi versi spiazzanti rispetto al passato. Negli USA, ad esempio, i consumi sono rimasti orientati alla crescita per tutto il 2022, anno nel quale l’inflazione ha toccato quota 8%. Dall’altro lato la volatilità dei prezzi delle materie prime ha generato un riposizionamento sui prezzi da parte delle aziende spesso e volentieri basato su aspettative più pessimistiche rispetto al reale andamento dei costi alla produzione. L’effetto finale è sicuramente un livello dei prezzi più alto rispetto a quello giustificabile dall’andamento del mercato delle materie prime, ma l’avidità in questo caso sembra contare un po’ meno di quanto si possa pensare.
Illustrazione di Alexa