Un interessante studio della FED di San Francisco rafforza l’idea che non sempre la politica monetaria è neutrale nel lungo periodo. Una fase restrittiva può incidere sulla crescita economica anche dopo un decennio.
La teoria classica dice che nel lungo periodo la politica monetaria è sostanzialmente neutrale, vale a dire che non è in grado di incidere sulle variabili dell’economia reale (domanda, crescita, occupazione). E’ davvero così? Forse potrebbe essere utile introdurre qualche elemento in più nella teoria della neutralità della moneta per mantenerne la validità; ad esempio distinguendo fra le due tipologie di politica monetaria: espansiva e restrittiva.
Ad introdurre questa nuovo argomento di dibattito ci hanno pensato i ricercatori della Federal Reserve di San Francisco. Òscar Jordà, Sanjay R. Singh e Alan M. Taylor, in occasione del simposio di Jackson Hole, hanno presentato i risultati di uno studio condotto analizzando politica monetaria e dati macroeconomici di 17 paesi nel periodo 1900-2015 (esclusi i due grandi conflitti mondiali). E gli spunti sono davvero tanti.
Partiamo dalla politica monetaria restrittiva, vale a dire dall’aumento dei tassi di interesse. In questo caso, scrivono gli autori, i dati ci dicono che gli effetti sulla crescita permangono ben oltre il breve periodo. Un aumento di un punto percentuale dei tassi di interesse, stando ai dati storici, si riflette in un livello di PIL più basso del 5% rispetto alla traiettoria iniziale a 12 anni di distanza.
Ed una politica monetaria espansiva non sembra essere in grado di controbilanciare tale effetto, dimostrandosi, questa si, neutrale nel lungo periodo rispetto alle principali variabili macroeconomice.
Come si possono spiegare questi risultati? Gli autori avanzano un’ipotesi legata alla struttura stessa della crescita economica, basata sostanzialmente su tre fattori: capitale, lavoro e tasso di produttività. Una politica monetaria restrittiva sembra avere effetti negativi di lungo termine sul capitale e sul tasso di produttività. Se per quel che riguarda il capitale il ragionamento è abbastanza intuitivo, molto più interessante è il discorso relativo al tasso di produttività. Questo è il risultato di molti fattori quali ad esempio gli investimenti in ricerca e sviluppo e la formazione dei lavoratori. Un aumento dei tassi di interesse può portare ad una riduzione degli investimenti in ricerca che nel lungo termine si può tradurre in una minore capacità innovativa delle imprese. Allo stesso tempo un rallentamento della domanda indotto da tassi più alti aumenta la disoccupazione. I periodo di disoccupazione interrompono i processi formativi dei lavoratori, causando ulteriore perdita di produttività.
Se la politica monetaria espansiva non può “riparare i danni” causati da una stretta monetaria, viene naturale pensare che debba essere la politica fiscale ad intervenire per evitare l’azzoppamento della crescita nel lungo termine. Il come sembrano dircelo proprio i risultati di questo studio: agevolazione degli investimenti in ricerca e sviluppo e politiche attive del lavoro volte a creare percorsi formativi continuativi per i lavoratori.
Foto di Steve Buissinne