La domanda che gira tra gli analisti in questi ultimi giorni è se il petrolio toccherà nuovamente quota 100 dollari al barile e cosa potrebbe comportare questo in termini di inflazione e di politica monetaria.
A guardare sotto il punto di vista tecnico il grafico dell’andamento del Brent, l’area 98/100 dollari sembra il naturale sfogo dell’inversione di tendenza sviluppatasi da luglio di quest’anno e generata sostanzialmente dalla decisione di ridurre i livelli di offerta da parte dei paesi dell’OPEC+. Anzi, stando a quanto riportano i ben informati, il taglio alla produzione di barili di petrolio adottata da Arabia Saudita e Russia sarebbe sostanzialmente una mossa geopolitica che poco avrebbe a che fare con le dinamiche della domanda e dell’offerta.
Al di là di quelle che possono essere le cause di questa situazione, dal punto di vista economico finanziario la domanda è quella ricordavamo prima. Saranno raggiunti i 100 dollari al barile? Per gli analisti di Citi Bank, ad esempio, la probabilità che il barile tocchi e superi la fatidica soglia dei 100 dollari è elevata, ma si tratterebbe in ogni caso di una situazione di breve termine. Secondo Ed Morse (come riporta l’agenzia Bloomberg) i barili mancanti verrebbero sostituiti da un aumento delle forniture dei paesi non aderenti all’OPEC in tempi relativamente rapidi. Il tutto favorito da una domanda che, se le stime macro verranno confermate, dovrebbe rallentare tra la seconda metà di quest’anno ed il 2024.
Se confrontiamo il prezzo attuale del greggio con quello implicito nei contratti future possiamo capire meglio l’atteggiamento degli investitori. Attualmente, infatti, si osserva una situazione di backwardation (prezzi attuali più alti di quelli impliciti nei future), il che vuol dire un eccesso di domanda sul mercato, scatenata da aspettative di drastica riduzione delle scorte di greggio. Aspettative alimentate dalla vistosa riduzione delle scorte di greggio statunitensi (scese di oltre 5 milioni di barili solo la settimana scorsa), da una riduzione della produzione di shale oil e dalla volontà russa di imporre dazi sulle esportazioni di prodotti petroliferi da ottobre prossimo fino al giugno del 2024.
In definitiva, nel breve termine la crescita del prezzo del petrolio sembra poter continuare sino a raggiungere quella fatidica soglia dei 100 biglietti verdi a barile, e se per un attimo diamo per scontato questo evento, allora la domanda conseguente è semplice: cosa succederà all’inflazione ed alla politica monetaria?
Secondo un calcolo di Bloomberg Economics un prezzo del barile sopra i 100 dollari fino alla fine dell’anno potrebbe comportare un aumento dell’inflazione USA di poco meno di un punto percentuale e dello 0.4% per quella dell’Eurozona e della Gran Bretagna. Ma oltre all’effetto sui prezzi è da tenere in conto anche quello sulle aspettative di inflazione. I consumatori, in particolare, sono molto sensibili ai rincari dei carburanti e tendono a reagire agli aumenti adattando verso l’alto le aspettative di inflazione. Gli ultimi risultati del sondaggio sulla fiducia dei consumatori negli USA e sulle aspettative di inflazione nell’Eurozona sembrano indicare che questo processo di trasmissione sta già avvenendo.
Tutto questo potrebbe tradursi in ulteriori rialzi dei tassi? Al momento si tratta di un’ipotesi che non può essere scartata, ma occorre ricordare che l’attenzione degli istituti centrali si concentra soprattutto sulla componente core (che esclude i prezzi dell’energia) e sulle aspettative (condizionabili anche attraverso la comunicazione). Secondo alcuni analisti, con riferimento alla situazione statunitense, un aumento dei prezzi del carburante potrebbe diventare un alleato della banca centrale. Il caro energia, infatti, andrebbe a contribuire alla riduzione dei consumi e quindi (quasi paradossalmente) ad una decellerazione della componente core dell’inflazione.
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