Nel 2023 dei 578 nuovi ETF collocati sulla borsa di New York ben 438 erano a gestione attiva e nel 2024 ne sono già stati lanciati 424. Si tratta di un trend che dal 2021 ad oggi non conosce rallentamento e che sembra far presa sugli investitori. Ma gli ETF attivi sono davvero migliori dei tradizionali strumenti a replica passiva? I numeri dicono di no, anche se ci sono lodevoli eccezioni.
Ma andiamo con ordine e partiamo da una definizione. Gli ETF attivi sono una particolare categoria di fondi negoziati in borsa che combinano caratteristiche tipiche degli ETF tradizionali con quelle dei fondi a gestione attiva. Mentre gli ETF tradizionali replicano passivamente un indice di mercato (come l’S&P 500 o il FTSE MIB), gli ETF attivi si distinguono perché hanno un gestore di portafoglio che prende decisioni attive su quali titoli acquistare o vendere all’interno del fondo, con l’obiettivo di battere il mercato o generare un rendimento superiore a quello dell’indice di riferimento.
Per l’investitore il potenziale vantaggio è quello di disporre di uno strumento finanziario gestibile come un’azione e che in più promette un extra rendimento rispetto all’indice di riferimento. Per le società di investimento c’è la possibilità di introitare fee di gestione più alte rispetto agli ETF tradizionali e di raggiungere una platea di ampia di investitori. Insomma, come direbbero quelli bravi nel marketing, una situazione win win. Beh, mica tanto.
Fosse solo per la mai troppo ricordata regola secondo la quale nel lungo periodo la gestione passiva batte regolarmente quella attiva, si potrebbe lasciare una speranza agli ETF attivi negli orizzonti temporali più brevi. Ma qui entrano in gioco i numeri e con quelli è difficile scendere a patti. I numeri in questione sono quelli raccolti sulla borsa statunitense dal Wall Street Journal e ci dicono che negli ultimi 15 anni, gli ETF attivi hanno ottenuto un rendimento annuo medio del 12,4% nelle azioni blue-chip, rispetto al 13,5% dei loro omologhi passivi, o al 12,6% dei fondi comuni di investimento a gestione attiva. E occorre ricordare che le commissioni per gli strumenti a gestione attiva sono in media dello 0,31%, mentre per quelli passivi si fermano allo 0,07%.
Qualche risultato interessante lo si raggiunge con gli ETF che investono in Small Cap o nelle obbligazioni. Gli ETF obbligazionari, ad esempio, gestendo asset meno liquidi, sfruttano la maggiore flessibilità nel discostarsi dagli indici di riferimento riuscendo a spuntarla sui fondi passivi in termini di performance prima delle commissioni.
Non mancano comunque strumenti interessanti che potrebbero rientrare in una logica di differenziazione del portafoglio e che extra rendimenti sembrano generarli davvero. E’ il caso dell’American Century Focused Dynamic Growth ETF (FDG, commissioni annue allo 0.42%) che negli ultimi 5 anni ha registrato un rendimento medio annuo lordo del 21% contro il 17% abbondante dell’indice di riferimento (il Russell 1000 Growth).
Oppure strumenti che attraverso la gestione attiva mirano a ridurre l’esposizione al rischio, quindi a ridurre la volatilità. In questa categoria rientra, ad esempio, il JPMorgan Equity Premium Income ETF (JEPI) che seleziona un mix di azioni a bassa volatilità e opzioni call. Il rendimento più basso rispetto a strumenti passivi è “giustificato” da una volatilità praticamente dimezzata (circa l’11% annuo contro il 20% abbondante degli strumenti passivi).
In conclusione, quindi, possiamo dire che a fronte di un interesse sempre più crescente per questa tipologia di strumenti, in generale non si riscontra un adeguato beneficio per gli investitori. Ma in un ottica di differenziazione del portafoglio una seleziona accurata di alcuni ETF attivi, guardando a costi complessivi e dati storici, potrebbe anche essere un’idea percorribile.
Foto di Markus Winkler